Le app e i software dedicati alla salute femminile da conoscere

2022-07-22 18:18:06 By : Mr. wei wang

Un business che varrà 65 miliardi di dollari entro il 2027. Il che fa sorgere molti interrogativi, ma anche la speranza di affrontare finalmente qualche tabù. Il dolore mestruale per esempio. E perfino la menopausa

Per monitorare il ciclo prevedendo dolori e crampi, per controllare assunzione e azione della pillola, o segnarsi in agenda i giorni più fertili. E per tenere d’occhio il sistema endocrino (ancora niente gravidanza? Controlla che non ci sia una sindrome dell’ovaio policistico, di cui soffre dal 5 al 10 per cento delle giovani donne nel mondo). L’ente governativo statunitense FDA, Food and Drug Administration, ha concesso un anno fa a Clue, un’app tedesca nata nel 2013, il titolo di “contraccettivo digitale”. Ida Tin, l’imprenditrice e scrittrice quarantenne danese che l’ha “inventata”, ha in curriculum anche un’altra visione: dalla sua bocca e dalla sua penna è uscito per la prima volta, nel 2016, il fortunato neologismo FemTech, che sta per Female Technology: i software, le app e i servizi tecnologici destinati alle donne e soprattutto alla loro salute e al loro benessere.

Insomma, è l’ultima frontiera degli unicorni, le aziende private che toccano una valutazione di mercato superiore al miliardo di dollari quando debuttano in Borsa. Va detto che per ora di unicorno FemTech ce n’è solo uno, Maven, la clinica ginecologica virtuale fondata nel 2014 da Kate Ryder; ma l’ottimismo degli esperti si basa sul fatto che le donne sono circa la metà della popolazione del Pianeta e ormai ogni giorno “mettono al mondo” start-up innovative dedicate all’assistenza sanitaria delle loro “sorelle”. Secondo la società di ricerca Global Market Insights, il mercato della FemTech potrebbe più che raddoppiare dagli attuali 22,5 miliardi di dollari fino ai più di 65 entro il 2027. Già previsti 1,1 miliardi di dollari di ricavi entro il 2024 e 50 miliardi di giro d’affari nel 2025. E con l’appeal di startupper efficienti, nel fiore degli anni, sensibili al sociale, alle quali covid e attivismo post #MeToo parrebbero aver dato il turbo. Perché aumentano anche le business angels, le investitrici che pompano denaro per lo sviluppo di un’idea.

Il catalogo dell’innovazione è spettacolare: dall’americana Biomilq (colture cellulari di latte materno umano) alla britannica Daye (tamponi sostenibili corretti al cannabidiolo contro la dismenorrea, effetto in 20 minuti). Dalla francese Lattice Medical (protesi mammarie cave, riassorbibili e stampate in 3D, che rigenerano il tessuto dopo una mastectomia, previste sul mercato per il 2025) all’israeliana MobileODT (colposcopio intelligente: smartphone e intelligenza artificiale per lo screening del tumore cervicale, diagnosi in 60 secondi). FemTech Analytics prevede che entro il 2026 la regione Asia-Pacifico vedrà la crescita più rapida al mondo di app per la salute femminile: oggi ne è un esempio quella dell’imprenditrice indonesiana Anda Waluyo, Sehati (monitoraggio fetale e accesso a consultazioni specialistiche), basata sullo IoMt, Internet of Medical things.

Che cosa chiedere di più, allora? Forse un’analisi del divario italiano rispetto agli altri Paesi, tenendo presente che solo il 22 per cento delle nostre ragazze sceglie corsi universitari nelle materie Stem. A meno che, paradossalmente, la “colpa” sia della nostra ancora buona assistenza sanitaria, coronata dall’unica legge esistente al mondo che disciplina applicazione e diffusione della medicina di genere (Legge 11 gennaio 2018, n. 3, la “legge Lorenzin”). A fronte del fatto, per esempio, che gli Usa dal 1977 hanno escluso le donne dalla sperimentazione dei farmaci; e che in gran parte del mondo la loro salute è stata sempre considerata “privata”.

La Fem Tech, oggi spinta dall'innovazione e dalla sostenibilità del sistema sanitario, qualunque esso sia o non sia, da un lato porta emancipazione: garantisce a tutte le donne, soprattutto a quelle nei Paesi in via di sviluppo, il modo di affrontare la period poverty (mancanza di prodotti igienici e di bagni “sicuri” durante il ciclo), i tabù che rendono invisibili alcune parti del loro corpo e di assicurarsi il benessere sessuale e riproduttivo. In più è anche un nuovo modello di studio della cura di malattie gravi. Dall’altro lato, però, alla FemTech non sono risparmiate critiche per le possibili derive. Quali? Banalizzazione di temi scientifici e sanitari (junk science), gestione tecnologica della fertilità, business della menopausa e possibile tracking mestruale da parte di datori di lavoro e assicurazioni sanitarie. Il Washington Post ha scritto di “spionaggio ovarico” …

Elisabetta Lalumera, 48 anni, lavora all’Università di Bologna, al Dipartimento di Scienze per la qualità della vita. Insegna Etica della comunicazione sanitaria e Filosofia della salute ai futuri medici e nutrizionisti. Ha studiato a Bologna, Londra e Aberdeen. «Di fronte a ogni tecnologia nuova, che sia la FemTech oggi o, in passato, Internet o la tvv, dobbiamo distinguere la domanda sul progetto generale – “questa nuova tecnologia può essere utile e buona per la nostra vita di per sé e da quali principi è ispirata?” – da quella sulla realizzazione: “questa specifica app, o questo social media, o questo programma televisivo sono ben progettati, eticamente pensati, accurati?”. Di per sé, le app e i prodotti FemTech vanno nella direzione di fornire alle donne maggiore autonomia. In filosofia, il concetto di autonomia viene da Kant ed è la capacità di agire secondo i propri principi e preferenze. È un valore fondamentale della persona umana. In bioetica si contrappone al paternalismo, che ha dominato il rapporto medico-paziente fino a qualche decennio fa e che consiste, in sostanza, nell’idea che le decisioni che ci riguardano vengano prese da chi sa (idealmente) qual è il nostro bene, ma non da noi».

«Se io so tutto del mio ciclo, della mia fertilità, dei miei sintomi di menopausa, come promette la FemTech, ho tutto ciò che serve per decidere in autonomia una serie di piccole o grandi cose, dal programmare una gravidanza a scegliere la mia dieta. Non ho bisogno dell’intermediario medico. In questo modo è garantito che siano le mie preferenze, valori, desideri a orientare le mie scelte, non quelle del medico o, tramite il medico, della società in cui vivo». E poi? «Poi ricorrerò al medico per le malattie vere e proprie, non per la gestione del mio benessere. Forse la tendenza è proprio quella di diventare tutti specialisti del nostro benessere, mentre i medici resteranno gli esperti “tecnici” delle malattie». Lati oscuri? «Uno solo. A proposito di tutti i progetti che valorizzano l’autonomia riguardo alla salute: essere autonomi non deve significare essere lasciati soli. Nel nostro caso, a livello istituzionale, non vogliamo che la FemTech diventi una scusa trendy per depotenziare le risorse per i consultori, l’educazione sanitaria, i medici di famiglia e i presidi sul territorio rivolti alla salute femminile. La medicina come istituzione sociale protegge prima di tutto chi è più debole, e le disuguaglianze esistono, non solo a livello economico, ma anche nella capacità culturale di accedere a strumenti avanzati come quelli dell’ambito FemTech. E se è vero che questi progetti sono in generale orientati all’autonomia delle donne nella gestione del proprio benessere, possono però essere realizzati male. Per esempio: fornire test della flora vaginale da fare a casa in autonomia può essere utile, a patto che i test siano accurati, ovvero sensibili e specifici. L’attenzione verso la qualità e il rigore scientifico e metodologico deve essere massima: ci vogliono regolamentazioni ferree e trasparenza nella comunicazione delle limitazioni di ogni prodotto, perché non ci servono costosi gadget inutili, ma veri presidi per il benessere». Lalumera ricorda che sta qui il punto più filosofico: cos’è il benessere che, di volta in volta, viene implementato nell’algoritmo? È felicità, serenità, efficienza, capacità di raggiungere i propri obiettivi, assenza di dolore, normalità fisiologica, o altro? Come si misura? Ogni sistema opera scelte concettuali che dovrebbero essere realizzate coinvolgendo le utenti, in modo inclusivo. Infine, ovviamente, i sistemi che garantiscono la privacy dei dati devono essere ottimi perché si tratta di dati sensibili».

Il discorso sul corpo delle donne e la sua gestione tecnologica ci porta poi a riflettere sulla menopausa. Che diventa MenoTech, all’insegna di quell’attivismo e di quel rilancio culturale (avete in mente Gwyneth Paltrow e il suo frullato terapeutico?) da cui sono appena passate le mestruazioni. Ed è subito business: tra 3 anni il nostro Pianeta ospiterà ben 1,1 miliardi di donne a ridosso della menopausa, il che significa moltissime potenziali consumatrici dotate di più soldi e di più tempo per comprarsi un’altra primavera. E anche in questo caso l’offerta è ampia: KaNDy, sviluppatore britannico di un trattamento non ormonale delle vampate (che modula i neuroni sensibili agli estrogeni nell’ipotalamo); l’italiana PinkUp Vamp, app per memorizzare le irregolarità del ciclo, i magoni, il desiderio che langue; il californiano The Kit, comprensivo di massaggiatore e lubrificatore organico per 135 dollari. La giovane americana Jannine Versi, cofondatrice e chief operating Office della start up Elektra Health, dedicata a un approccio olistico ma scientifico alla menopausa, elenca 34 sintomi e i tassi di suicidi tra le donne di età compresa tra i 45 e i 64 anni, i più alti rispetto ad altre classi anagrafiche. Ma il premio per l’audacia va a Aubrey Hubbell, giovane e bella imprenditrice newyorkese: distrugge un tabù nel tabù, l’incontinenza urinaria in menopausa, e lo fa grazie a Hazel, una start up di prodotti sexy e furbi.

Tutto ok, dunque? Risponde Elisabetta Lalumera: «Mettere in primo piano la menopausa nella ricerca e nella tecnologia medica è un importante passo concettuale. All’inizio del secolo scorso la menopausa era il momento in cui la donna si metteva ai margini della vita sessuale e sociale. Negli anni Settanta andava invece negata nella sua specificità, in nome di una parità tra uomo e donna male intesa come uguaglianza biologica. Poi ci hanno insegnato a curarla con gli ormoni sostitutivi, poi di nuovo ad accettarla senza fare nulla perché gli ormoni sostitutivi “fanno male”. In questa storia ci sono più politica e sociologia che effettiva ricerca, proprio per lo squilibrio tra ricerca sugli uomini e ricerca sulle donne che ha sempre caratterizzato la medicina». E a che punto siamo, oggi? Continua Lalumera: «La menopausa non è una malattia (se si togliesse il “meno” forse sarebbe più chiaro), ma una fase fisiologica della vita che richiede conoscenza e adattamento, perché sia compatibile con un buon livello di benessere. Esattamente come la gravidanza. Una donna in menopausa è inoltre davvero pronta a essere autonoma, perché generalmente sa cosa vuole e che cosa può ottenere dal proprio corpo e, in senso lato, dal proprio benessere e si configura quindi come l’utente ideale di tecnologie per la gestione autonoma della salute». Ma c’è un “ma”. «Se ben progettata, di qualità, concettualmente trasparente, inserita in una rete che preveda anche il ricorso all’esperto “umano”, la MenoTech può fare uscire la menopausa dall’alternativa tra patologizzazione e negazione», ammonisce Lalumera. «Ma se è un mercato di inutili gadget per persone mediamente abbienti, ci interessa poco. Su questi aspetti di qualità scientifica, concettuale e anche etica dobbiamo tenere gli occhi aperti». Sacrosanto.

«FemTech? Questo termine è una trovata di pubblicità e marketing: l’innovazione non ha gender, è il team che fa la differenza. Sono contraria agli harem tecnologici e sono stanca di essere lusingata perché sono una donna italiana, madre e meridionale per giunta, che lavora per alimentare l’equilibrio di genere in Europa», afferma Chiara Maiorino, 39 anni, Ecosystem Lead for Italy di EIT Health, la partnership pubblica-privata dell’Istituto Europeo di innovazione e tecnologia (EIT), incubatore di startup impegnate nell’innovazione del settore sanitario. EIT ha inaugurato a fine 2021 la prima sede in Italia al Cestev, il centro di servizio dell’Università degli Studi di Napoli Federico II per le Scienze e tecnologie per la Vita. Maiorino nasce come ricercatrice biomedica, un dottorato in neuroscienze e poi «decido di tuffarmi nell’ambito del trasferimento tecnologico tra accademia e industria dell’open innovation». Dice che quanto a basi per il FemTech e l’innovazione digitale, le italiane non sarebbero seconde a nessuno, peccato che le donne formate in ambito tech non crescano, e avanzino solo i maschi. «Credo nell’ingegno usato in modo fisiologicamente corretto, credo nell’educazione della persona e nella sostenibilità ambientale, e credo nel premio ai più meritevoli. Il futuro sarà sempre qualcosa di migliore».

Il lato oscuro della FemTech si è rivelato all'improvviso, dopo la sentenza della Corte Suprema americana che ha abolito il diritto costituzionale all'aborto, divenuto subito illegale (e punibile con anni di carcere) in molti Stati. Le app per il controllo del ciclo mestruale, utilizzate in Usa da decine di milioni di donne, sono infatti in possesso di tutti i dati che consentono di sapere se e quando il ciclo di un'utente si è interrotto, se e quando è iniziata una gravidanza e quando si è conclusa. Il timore degli esperti di privacy è che piattaforme prive di scrupoli possano vendere i dati, o che la legge possa obbligarle a consegnarli, in modo da identificare chi ha praticato un aborto o potrebbe considerare l'opzione, e formalizzare l'accusa di omicidio. Si moltiplicano in questi giorni gli appelli che consigliano alle donne di cancellare la registrazione. (M.C.)